Milano, 27 aprile 2017 - 21:54

La rivolta degli indios con le frecce: «Non lasciamo la nostra terra»

Violenti scontri in Brasile. Il leader cacique: «Il governo ci ha tradito»

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Con archi e frecce contro i gas lacrimogeni della polizia. Migliaia di indigeni si sono dati appuntamento martedì sulla Esplanada dos Ministérios di Brasilia, cuore del potere politico, e hanno messo in scena un «funerale simbolico» per ricordare la strage dei loro antenati morti difendendo le terre ancestrali e le numerose vittime — 13 solo nel 2016 — uccise negli ultimi anni. Poi hanno tentato di entrare nel palazzo del Congresso ed è partita la carica delle forze dell’ordine. Per alcune ore i prati davanti alla sede del Parlamento brasiliano sono diventati un campo di battaglia.

«Da qui non ce ne andiamo», avvertono gli indigeni che restano accampati nella capitale, in uno dei più imponenti assembramenti delle tribù native, ribattezzato «Terra Livre» (terra libera). Protestano contro i pesanti tagli al bilancio del Funai, la Fondazione nazionale degli indigeni, e contro un emendamento costituzionale in fase di approvazione, la Pec 215, che dà l’ultima parola sulla demarcazione delle loro terre al Parlamento, dominato dalle lobby dell’agro-business. Il «cacique» della tribù Guaraní-Kaiowá Ladio Veron, intervistato dal Corriere, non salva nessuno dei politici «bianchi»: «La mia gente ha avuto fiducia a suo tempo in Lula, diceva che ci avrebbe riconsegnato almeno parte delle nostre terre — ricorda —. Abbiamo lavorato per la sua campagna, ha vinto e non ha mantenuto le promesse: sotto la sua presidenza e sotto quella della sua erede, Dilma, non è stata demarcata nessuna area kaiowá. In cambio, sono stati assassinati molti dei nostri leader».

Ladio è il figlio del «cacique» Marcos Veron, brutalmente ucciso nel 2003 dai sicari dei latifondisti, nel Mato Grosso do Sul. La situazione non è cambiata: «Abbiamo recuperato un pezzo di terra di 96 ettari, stiamo ammassati lì ma non abbiamo assistenza medica, né scuola. Soffriamo ogni giorno attacchi, minacce, intimidazioni, i fazendeiros usano anche i droni che volano continuamente sopra le nostre baracche. Con il governo di Michel Temer va anche peggio di prima: stanno smantellando il Funai, collocando i latifondisti nei Ministeri e ora vogliono impedire la demarcazione delle terre indigene». La Pec 215 potrebbe bloccare le future demarcazioni e ridurre la dimensione dei territori esistenti, aprendoli ad attività minerarie, nuove strade, basi militari e altri progetti di sviluppo che potrebbero essere letali per i popoli indigeni. Il testo, che da 16 anni rimbalza da una Camera all’altra in attesa dell’approvazione, vieta anche l’ampliamento delle terre già demarcate e garantisce un indennizzo ai proprietari delle aree all’interno delle riserve.

In Brasile, ricorda la Ong Survival International che ha lanciato una petizione internazionale, vivono circa 900 mila indigeni, divisi in 240 tribù, da quelle più popolose come i Guaraní e gli Yanomami al piccolo popolo degli Akuntsu, rimasti solo in quattro. Il 13% del Paese è considerato terra indiana, dalle foreste pluviali tropicali alle praterie dell’interno. Ma il Brasile, assieme al Suriname, è l’unico Stato sudamericano a non riconoscere i diritti di proprietà sulla terra agli indigeni e il processo di demarcazione non è mai realmente decollato. «Da qui non ce ne andiamo», assicurano gli indigeni fuori dai palazzi del potere. Parteciperanno anche loro al grande sciopero generale del 28 aprile indetto dai sindacati per protestare contro la riforma del lavoro del governo Temer. In Brasile sarà la paralisi.

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